“LA LUNA E I FALÒ” è un romanzo biografico, e non autobiografico, anche se il protagonista del romanzo è l’alter ego di Cesare Pavese. Il romanzo rientra nel genere realistico – simbolico ma anche in quello di ambiente naturalistico in quanto descrive ampiamente le langhe piemontesi. Il romanzo racconta in prima persona (auto diegetico) la storia di un uomo che agli inizi degli anni ’30 emigra negli Usa e poi, nel 1947, ritorna nella sua terra di origine, le langhe cuneesi, e ripercorre e riscopre la sua vita, dalla nascita a tutta la sua adolescenza fino al momento della sua partenza per gli Usa. L’epigrafe del romanzo è “for C. Ripeness in all” (per Costance. La maturità è tutto). (Tutte le citazioni riportate nella sintesi dei vari capitoli sono tratte dal libro “La luna e i falò” – ed. Einaudi)
Capitolo I
Il libro inizia con un monologo interiore del protagonista che dice perché è rientrato in un particolare paese delle langhe e non in un altro vicino. Infatti il protagonista avrebbe potuto scegliere anche Canelli, Barbaresco o Alba poiché non conosceva il paese dove era nato in quanto non aveva mai conosciuto i genitori ed era stato lasciato sulle scale del duomo di Alba e da lì in un orfanotrofio da dove era stato prelevato da una famiglia di Gaminella. Inizia da questo momento un lungo e continuo flashback del protagonista che continuamente passa dal presente al passato e dal passato al presente. Questa è una caratteristica costante di tutto il libro. La famiglia che lo aveva adottato era formata da Virgilia, Padrino e altre due figlie ma lo avevano “preso ed allevato” (pag. 9) soltanto per la “mesata” (pag. 9) che l’ospedale di Alessandria gli passava. Il protagonista rimase con questa famiglia fino all’età di 13 anni quando, nel 1921, andò ad abitare come servitore “alla cascina della Mora” (pag. 12) dove rimase a lavorare fino al compimento del diciottesimo anno di età quando partì per il servizio militare, a Genova. Alla cascina della Mora conobbe Nuto, il suo amico del Salto, che era più grande di 3 anni, il quale trascorreva molte sere a suonare con il suo clarino alla Cascina della Mora per allietare le serate all’interno del cortile. Il protagonista ora che è ritornato dice che gli piace ricordare la sua infanzia, i tempi della Mora e tutta la sua giovinezza. Il protagonista ricorda anche con piacere la strada per Canelli e le persone che passavano in quella strada. Per il protagonista “le collinette di Canelli sono la porta del mondo” (pag. 13).
Capitolo II
Durante l’estate del 1948 il protagonista alloggia all’albergo dell’angelo del paese (Santo Stefano Belbo) dove il suo amico Nuto, anch’egli ormai adulto, lo va a trovare. Sia Nuto che il protagonista ricordano il passato e il protagonista chiede a Nuto come mai avesse smesso di suonare e perché adesso faceva soltanto il falegname. Nuto risponde che la musica “Diventa un vizio, bisogna smettere” (pag. 17). Nuto invece chiede al protagonista se fosse andato a rivedere la cascina della Mora ma il protagonista gli rispose di non averlo ancora fatto ma che ci sarebbe andato a breve.
Capitolo III
Il protagonista dice che aveva sentito parlare di Nuto già nei primi anni del suo soggiorno in America quando un altro emigrante di Bubbio, un altro paese delle langhe piemontesi, che si trovava di passaggio dove lavorava lui, gli raccontò che l’anno precedente c’era stata una gara tra le bande musicali dei paesi delle langhe e Nuto era stato il più bravo. Il protagonista dice che in quel periodo aveva una fidanzata ma la grandezza di quei territori gli metteva paura e si rendeva conto che la gente del luogo non si sentiva sicura a vivere in quegli ampi spazi e lui un giorno se ne sarebbe andato.
Capitolo IV
Nuto va a trovare il protagonista nel suo albergo e gli dice che secondo lui c’è un destino per tutti e “A tutti qualcosa tocca” (pag. 26). Nuto gli dice che il mondo è sbagliato e bisogna cambiarlo e che non è giusto che vi sia chi ha tutto e chi ha niente. Al che il protagonista risponde che alla fine della guerra, nel 1945, i comunisti avrebbero potuto cambiare l’Italia. Nuto gli risponde che, invece, tutto è rimasto invariato.
Capitolo V
Il protagonista si rende conto del caldo che fa in quel mese di agosto e si rende conto anche che nessuno in quel paese ormai lo conosce. Un giorno tramite Nuto conosce il nuovo mezzadro del casotto della Gaminella, “il vecchio Valino” (pag. 30). Un pomeriggio il protagonista va a vedere il casotto della Gaminella dove vede un ragazzo seduto per terra il quale gli fa ricordare la sua infanzia trascorsa nel casotto. Dal casotto uscirono anche due donne. Il ragazzo si alzò da terra e il protagonista vide che era zoppo e rachitico e aveva non più di 10 anni. “Avrà avuto dieci anni, e vederlo su quell’aia era come vedere me stesso” (pag. 32).
Capitolo VI
Il protagonista va a cercare Valino a riva, seguito da Cinto, il ragazzetto di 10 anni. I due trovano Valino che rimane indifferente allo sconosciuto. Intanto il protagonista osserva i cambiamenti avvenuti nelle colture del posto e pensa che “Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale” (pag. 36). Ricorda anche quando in quei luoghi andava a fare pascolare la capra. Cinto gli dice che da poco, in quella riva, era stato ritrovato un tedesco morto.
Capitolo VII
Il protagonista e Valino discutono sulla guerra e poi quando vanno via il protagonista ricomincia a parlare con Cinto per fargli capire che conosceva quei luoghi.
Capitolo VIII
In questo capitolo il protagonista racconta una discussione con una persona anziana chiamata il Cavaliere il quale racconta al protagonista tutta la sua vita.
Capitolo IX
Il protagonista rivede nuovamente Cinto al quale chiede se in quella zona facessero i falò. Cinto gli risponde che i falò fanno bene alla campagna. Poi il protagonista riparla con Nuto di Cinto e secondo il protagonista Cinto doveva cavarsela da solo e “finchè non va in mezzo alla gente, verrà su come suo padre” (pag. 50). Il protagonista chiede a Nuto se anche lui credesse ai falò e alla luna. Nuto risponde che lui credeva all’azione benefica dei falò e soprattutto credeva alla luna che favorisce o sfavorisce il lavoro dei contadini e che non c’era da meravigliarsi su questi discorsi. Secondo Nuto non era superstizione pensare alla luna e ai falò come fattori importanti nella tradizione contadina.
Capitolo X
Il protagonista ricorda sempre la sua infanzia e la sua giovinezza e oggi alcuni lo chiamavano nuovamente “quello del Mora” (pag. 55). Il protagonista seppe che la prima moglie di Valino era morta e che ora questi dormiva con la sorella della moglie e che Valino aveva un carattere violento. Infatti Valino frustava sia la cognata che Cinto. Un giorno il protagonista va a Canelli per sbrigare sue faccende economiche e rimane entusiasta dello sviluppo avuto dalla città. Ripensando al discorso con Nuto, il protagonista si rende conto di non credere alla luna. Nuto dice al protagonista che avevano trovato due morti repubblichini “Sui pianori di Gaminella” (pag. 58)
Capitolo XI
In questo undicesimo capitolo, il protagonista ripercorre le sue disavventure negli Usa dove prima aveva fatto l’operaio in ferrovia e poi aveva comprato un camioncino dove trasportava dei liquori. Una volta voleva andare verso il Sud, verso il Messico, ma il camioncino “si impannò in aperta campagna” (pag. 60). Il protagonista rimase da solo in quella desolata prateria ed ebbe paura sia dell’ampiezza del territorio sia della luna che “pareva una ferita di coltello e insanguinava la pianura” (pag. 63).
Capitolo XII
In questo capitolo alcuni abitanti di Gaminella accusavano i partigiani di essere gli assassini dei due repubblichini e che la colpa della guerra e della morte di molti cittadini della zona era dei comunisti e dei partigiani. Il parroco fece una predica contro i partigiani e lanciò un “anatema contro i rossi” (pag. 66).
Capitolo XIII
In questo capitolo il protagonista parla nuovamente con Nuto della guerra e l’amico gli dice che i partigiani sono stati dappertutto. Il protagonista chiede a Nuto come fosse morte l’ultima figlia del padrone della Mora, sor Matteo.
Capitolo XIV
Il protagonista confessa che, dopo tanti anni di emigrazione, era ritornato per rivedere tutte le persone che aveva conosciuto e frequentato durante la sua permanenza alla Mora. Ma ora quelle facce e quelle voci non c’erano più. Si sentiva che veniva da lontano e che il mondo lo aveva cambiato. Il protagonista racconta l’anno in cui Padrino e la moglie si trasferirono a Cossano e lui per intercessione del parroco andò a lavorare come servitore nella cascina della Mora. Lì lo accolsero Cirino il servitore, il massaro Lanzone e gli altri camerieri, Emilia e Serafina. “Chi mi disse che sembravo un’anguilla fu l’Emilia” (pag. 78).
Capitolo XV
In questo capitolo il protagonista racconta che nella cascina imparò a fare oltre al servitore anche il contadino, “a trattare i manzi” (pag. 80) e a lavorare le vigne. Poi il protagonista racconta in breve la storia del sor Matteo che aveva ereditato la cascina dal padre e che aveva ampliato e maggiormente utilizzata con tanto lavoro e commercio. Sor Matteo aveva avuto due figlie dalla prima moglie, Irene e Silvia, e da poco aveva avuto la terza figlia, Santa, dalla seconda moglie.
Capitolo XVI
Il protagonista viene a conoscenza della vita magra di Valino e del suo carattere irascibile. La famiglia di Valino aveva un cane a cui non davano da mangiare e che “abbaiava alla luna che gli pareva la polenta” (pag. 85). Un giorno Nuto doveva riparare una tina di Valino e il protagonista va con lui e riesce ad entrare nel casotto della sua infanzia.
Capitolo XVII
Nuto e il protagonista ricordano di quando si conobbero la prima volta e il protagonista descrive il carattere di Nuto, espansivo e gioviale. Nuto sapeva già suonare a quell’età e parlava con tutti, anche con lui appena arrivato. Era Nuto che gli spiegava, in quegli anni, come doveva comportarsi e come era fatto il mondo e molte volte insieme arraffavano una bottiglia in cantina e la bevevano alla bocca discorrendo di ragazze.
Capitolo XVIII
In questo capitolo il protagonista racconta di quando il sor Matteo gli promise una paga mensile come gli altri servitori e lui fu molto felice di essere aggiustato come gli adulti. Il protagonista dice che i primi soldi che ricevette li spese tutti al tiro a segno.
Capitolo XIX
Un giorno Cinto andò a trovare il protagonista all’albergo dell’angelo. Il protagonista gli comprò un coltello nella fiera della piazza. Cinto scelse il coltello e poi se ne andò con suo padre che lo venne a prendere. Il protagonista confessa che avrebbe voluto vedere il mondo con gli occhi di Cinto e lo invidiava. Il protagonista anche se non era stato zoppo comunque adesso invidiava Cinto. “Mi pareva di sapere anche i sogni che faceva la notte e le cose che gli passavano in mente mentre arrancava per la piazza” (pag. 100)
Capitolo XX
In questo capitolo il protagonista racconta di quando con Nuto andavano sui Coppi a leggere vecchi libri del sor Matteo e sentivano, dal terrazzo, che Irene, la bionda, suonava il pianoforte e cantava. Anche Nuto ogni tanto andava a trovare Irene per ascoltarla suonare sul pianoforte. Comunque il protagonista confessa che le due figlie di sor Matteo, Irene e Silvia, erano inarrivabili per lui, per bellezza, età e condizione sociale. Malgrado questa certezza il protagonista occhieggiava le due ragazze con invidia e simpatia.
Capitolo XXI
In questo capitolo il protagonista racconta di quando andò a prestare il servizio militare, a Genova dove conobbe una giovane donna, Teresa, che lo consigliava e gli voleva bene. Il protagonista ricorda che negli Usa aveva conosciuto una maestra, Rosanne, con la quale si era fidanzato e stava per sposarsi. Lei aveva il desiderio di essere fotografata per diventare famosa. Rosanne non beveva ma consigliò al protagonista di fabbricare “il prohibition-time gin, il liquore del tempo clandestino, per chi ci avesse ancora gusto – e furono molti” (pag. 112). Ma Rosanne lasciò il protagonista e non ritornò a casa sua ma andò nella Costa e “non uscì mai sui giornali a colori” (pag. 114). Da quel momento il protagonista non seppe più nulla di Rosanne.
Capitolo XXII
In questo capitolo il protagonista racconta le pene d’amore e il disagio che provavano le due figlie di sor Matteo quando non venivano invitate da una contessa di Genova, che abitava nella cascina del Nido, vicino Canelli. Il protagonista racconta la storia di questa contessa che proveniva da Genova, si era sposata con un ufficiale francese ed era rimasta una vedova ricca e manteneva molti nipoti. Quando la vecchia contessa non le invitava nella sua cascina per le sue feste, le due figlie di sor Matteo ne soffrivano.
Capitolo XXIII
Il protagonista comincia a raccontare la storia di Irene e Silvia che erano frequentate da un giovane, Arturo, che abitava vicino a loro. Arturo cominciò a frequentare la loro casa dove portava anche un suo amico. Il protagonista sentiva dalla terrazza le chiacchiere e le risate dei quattro giovani e ne provava invidia perché non si sentiva all’altezza di loro quattro. La sera i quattro uscivano sullo stradone della cascina e tutti gli altri li guardavano “seduti sul trave, nell’odore fortissimo dei tigli” (pag. 125).
Capitolo XXIV
Irene si era innamorata di un nipote della vecchia contessa e soffriva per lui e quindi smaniava per andare sempre nella cascina del Nido a trovare il suo Cesarino. Invece Silvia si mise con uno di Crevalcuore con cui girava in motocicletta in molti luoghi della zona. “A volte andavano anche a Nizza all’albergo” (pag. 129). Il protagonista guardava sempre con ammirazione la vita delle due sorelle che lui continuava a desiderare e sulle quali fantasticava.
Capitolo XXV
Irene soffriva per Cesarino, il nipote della contessa, mentre Silvia continuava la sua storia con il giovane di Crevalcuore, Matteo, e iniziò “a imparare a montare il cavallo e correre con gli altri” (pag. 133). Il protagonista guardava Silvia per scoprire i segni che le lasciava Matteo ma per quanto la guardasse attentamente non notava differenze, nel viso e nel corpo della giovane.
A novembre di quell’anno Irene si ammalò di tifo e fu curata per due mesi.
Capitolo XXVI.
In questo capitolo Nuto chiede al protagonista come mai fosse andato negli Usa e il protagonista risponde che non fu tanto la voglia di andare lì quanto la voglia di riscattare la sua situazione di servitore. Quando era a Genova, dopo il servizio militare, cominciò a frequentare alcuni giovani compagni e quando molti di questi furono catturati lui ne parlò con Teresa che gli trovò “un posto di fatica su un bastimento che andava in America” (pag. 139). Intanto videro arrivare Cinto che, arrancando e ansimando, li cercava.
Capitolo XXVII
Cinto raccontò a lui e a Nuto che la Madama della villa era andata da loro per spartire il raccolto. Valino ritornò la sera nero e torvo nel volto e prese a calci la cognata fino ad uccidere lei e la madre di lei. Valino uscì fuori e diede fuoco con la lampada al fienile, alla paglia e a tutto il casotto. Cinto scappò nella riva con il coltello. Valino lo chiamò diverse volte e lui scappò diverse volte. Alla fine quando Cinto ritornò nel casotto vide, dalla volta del noce, “pendere i piedi di suo padre, e la scaletta per terra” (pag. 144). Il protagonista disse a Nuto che dovevano pensare loro al futuro di Cinto.
Capitolo XXVIII
Irene non morì di tifo e a gennaio guarì. Subito dopo ricomparvero anche Santa e Silvia che durante la malattia della sorella erano andate via di casa. Nel frattempo Silvia continuò la sua storia con Matteo di Crevalcuore. Ma subito dopo Matteo prese un’altra donna e lasciò Silvia che si mise con un ragioniere di Canelli. Ma nel frattempo Silvia conobbe un uomo che veniva da Milano e “s’incontrava con lui in una villa di conoscenti e ci facevano le merende” (pag. 149). Ma questo milanese, di nome Lugli, che era ben vestito, un giorno abbandonò tutti lasciando grossi debiti. Al che Silvia si ribellò e seppe che era andato a Genova. Silvia con i pochi soldi che aveva a casa andò a trovarlo a Genova ma non trovò nessuno e soffrì la fame. Il mese dopo il Sor Matteo la riportò a casa “ma stavolta Silvia era incinta davvero” (pag. 151).
Capitolo XXIX
Irene seppe che il palazzo del nido era stato chiuso e che il suo Cesarino era andato via senza cercarla. Il protagonista continua a leggere per darsi una cultura e riflette sulle parole di Nuto che diceva “che il sangue è rosso dappertutto” (pag. 154). Intanto Silvia, dopo essere ritornata da Genova, andò un giorno da una levatrice di Costigliole per farsi ripulire. Silvia, qualche giorno dopo, nel giugno del 1925, “Morì senza dire una parola né al prete né agli altri, chiamava soltanto papà a voce bassa”. (Pag. 155). Sor Matteo che non seppe niente della morte della figlia sentì la litania del prete e cercò di dire che non era ancora morto. Adesso Arturo che frequentava sempre la casa del Sor Matteo strinse di più con Irene che lo sposò nel novembre del 1926 soltanto per andarsene da casa e “per non sentire la matrigna brontolare e far scene” (pag. 156). Irene pensava di andare fuori dalla sua cascina ma invece rimase lì a fare le flanelle al padre. L’anno dopo Arturo la portò in una casa a Nizza in una stanza dove la batteva.
Capitolo XXX
In questo capitolo il protagonista racconta un episodio accaduto quando aveva sedici anni, nel 1924, quando portò Irene e Silvia alla festa del buon consiglio. Le due splendide ragazze passarono una bella serata insieme ad altri amici e lui, dopo averle accompagnate, le guardava con ammirazione ed invidia perché voleva essere un giovanotto in mezzo alle due fanciulle. Dopo la festa il protagonista riaccompagnò a casa Irene e Silvia a notte tarda.
Capitolo XXXI
Il protagonista disse a Nuto che Cinto doveva rimanere nella falegnameria di Nuto ad imparare un mestiere. Dopo il protagonista gli avrebbe trovato un posto di lavoro a Genova. Il protagonista disse a Nuto che a breve “Magari m’imbarco – gli dissi, – ritorno per la festa un altr’anno” (pag. 163). Nuto invitò il protagonista a salire sulla cima della Gaminella e ambedue si soffermarono a guardare i sentieri della cima. A un certo punto Nuto cominciò a parlare di Santa che, dopo la morte della madre, era andata ad abitare a Canelli dove faceva la maestra. Era molto bella e si impiegò nella casa del fascio. Era così bionda e così fina che stava bene a girare nelle case dei signori. Poi dopo l’estate del 1943 e l’inizio della Repubblica di Salò Santa era scappata per un breve periodo con il suo capo popolo ad Alessandria, ma continuò a vivere a Canelli “si ubriacava e andava a letto con le brigate nere” (pag. 167).
Capitolo XXXII
Nuto dice che vedeva Santa molte volte a Canelli e una volta lei lo invitò a parlare dentro un bar. Nuto non ebbe il coraggio di dire a Santa di fare la spia per i partigiani ma l’idea venne a Santa stessa che cominciò a riferire a Nuto delle circolari dei repubblichini. Ma i fascisti si accorsero del doppio gioco di Santa che una notte scappò con il partigiano Baracca ma poi ritornò un’altra volta a frequentare i fascisti. A un certo punto anche Baracca si accorse del doppio gioco di Santa e quindi decisero di giustiziarla. Un giorno Baracca chiamò Nuto per dirgli che Santa faceva il doppio gioco. Santa voleva scappare da Canelli e andò a nascondersi nel casotto della Gaminella dove c’erano Baracca, Nuto ed altri due partigiani. Qui Baracca disse a Nuto che la sentenza di Santa era stata ormai decisa. I due partigiani la condussero fuori dal casotto dove fece un urlo e una scarica di mitra la colpì. Nuto e Baracca uscirono fuori e la trovarono distesa sull’erba. Il protagonista chiese a Nuto “Non c’è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due…” (pag. 173). Nuto rispose “No…Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò” (pag. 173).
Modica, 01/ 10/ 2018 Prof. Biagio Carrubba.
Modica, rivisto e riordinato il 06 giugno 2023.
Modica, 12 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba
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